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EKPHRASIS


Andy Warhol, Brillo Box (Soap pads), 1964


È possibile raccontare un’opera d’arte? Non mi riferisco all’esperienza di incontro con essa, le emozioni suscitate o quelle che le hanno dato vita, neppure ad una mera descrizione formale.

Sarebbe più appropriato, forse, riformulare la domanda e chiedersi: è possibile “parlare l’arte”? E di nuovo non intendo l’enunciazione di una poesia o la messa in scena di un’opera teatrale, ma parlare l’arte della vista, del colore e della sostanza. È possibile, poi, “parlare la negazione” del principio stesso sul quale, fino al secolo scorso, essa si fondava? La lingua di quell’opera, quella messa in opera, che ha scardinato ogni legge, ogni sistema, ogni storia?

È arte, arte figurativa, arte della vista, del colore e della sostanza e approcciarsi ad essa vuol dire abbandonarsi alla percezione sensuale, parlarla traducendo il linguaggio degli occhi così da riuscire a darle fiato.


Una scatola semi-cubica in legno, quarantatré punto tre per quarantatré punto due per trentasei centimetri e mezzo, leggermente più grande delle sue gemelle di cartone che nel 1964 riempivano gli scaffali. Sei facce accomunate dalla ripresa seriale di una stessa composizione, ora più grande, ora più larga, ora alleggerita, ora più decorata. Osservandola si riconoscono simboli, calligrafie differenti di un linguaggio che non vuole comunicare nulla, non vuole attrarre, non vuole farsi comprare, non chiede risposta, così simile ma connotativamente opposto alle stesse parole stampate su quelle altre scatole contenenti il detersivo per alluminio firmato Brillo.

Non è pubblicità, adesso “24 GIANT SIZE PKGS.” è arte. Lo sfondo bianco ed un insieme di linee di inchiostro serigrafico di un blu scuro spento, non profondo, non allusivo, che procedono realizzando curve e segmenti, creando angoli, lasciando spazi, alternandosi alla vernice rossa, purpurea, tendente all’amaranto.

Questa, partendo dal basso, disegna il frangente di un’onda che si ripropone per rotazione nella parte superiore della facciata incorniciando altri simboli, più grandi, più spessi, più arrotondati, in grado di colpire maggiormente la retina. Sono macchie di colore composte secondo una logica, che hanno una direzione dal basso verso l’alto, e crescono o si chiudono in loro stesse formando dei cerchi: si può leggere Brillo, ma non lo si deve fare per forza, si può intravedere una maschera di carnevale rovesciata, i binari di un treno stilizzati, un punto esclamativo al contrario.

E così con le altre scritte: niente riguarda più la semiotica, è l’estetica la vera protagonista, il non-senso dell’arte per l’arte, una bellezza nuova, studiata, moderna. Rosso, blu e bianco, i colori della cultura a stelle e a strisce, i colori della rivoluzione, quelli della libertà, del consumo, del popolo, del pop.

Rosso, blu e bianco, tre colori scelti perché le scatole erano così, perché la Brillo vendeva così, perché l’americano medio comprava così e perché ad Andy Warhol piacevano, terribilmente, così.



Anna Ballatore

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