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“I grandi scrittori non mangiano”: intervista a Donato Montesano.



Donato Montesano nasce a Tricarico, in provincia di Matera, il 18 gennaio 1991. Partecipa a

numerosi concorsi letterari vincendo premi regionali e nazionali, e la sua scrittura cresce

influenzata dai suoi miti letterari, musicali e cinematografici. Durante il suo soggiorno in Venezia, Donato si racconta attraverso le pagine del suo libro d’esordio: “I grandi scrittori non mangiano”, edito da Eretica Edizioni e pubblicato nel 2017.


Inizierei con la domanda base: la tua passione per la scrittura quando è nata e quali sono gliautori che più ti hanno ispirato?


La passione per la scrittura e lettura è nata già da piccolo: i miei viaggi letterari sono nati con le fiabe che mi raccontava mio nonno la sera, ricordo che queste storie mi facevano viaggiare con la fantasia. Da allora ho iniziato a voler raccontare delle storie che fossero mie, così pian piano mi sono avvicinato alla lettura di scrittori che ritenevo più vicini ai miei gusti, soprattutto John Fante, scrittore italo-americano che mi ha fatto capire che la letteratura non era solo quella che ci veniva imposta a scuola ma che poteva essere anche divertente: lui è un scrittore molto ironico, ed è stata la cosa che mi ha colpito di più. Da allora ho cercato di cimentarmi anch’io nella scrittura per capire cosa potesse suscitarmi, ho visto che mi piaceva inventare delle storie e raccontarle scrivendole e

allora ho partecipato a vari concorsi letterari per capire se valessero qualcosa, quelle storie.

Per fortuna è andata bene.


Per te che significato ha scrivere?

Scrivere per me è uno sfogo. Sono una persona che parla poco, quindi mi piace scrivere anche per compensare il fatto che io non parli molto: scrivendo riesco a dire tutto quello che voglio, tutto quello che la fantasia riesce a creare. Ed è anche divertente, quindi mi piace molto.


scrivendo riesco a dire tutto quello che voglio

Mi ha colpito una frase di De André che avevi citato in una tua intervista, e che dice: “Scrivo per paura. Per paura che si perda il ricordo della vita delle persone di cui scrivo.”.

Secondo te scrittura è anche memoria?

Secondo me sì, scrittura è soprattutto memoria. Innanzitutto per il fatto che se uno scrive, nella maggior parte dei casi scrive di cose che ha vissuto lui in prima persona. Anche nei romanzi di fantasia o fantascientifici, uno scrittore ci mette sempre qualcosa di quello che ha vissuto: questa è la cosa interessante della scrittura. E poi è anche una questione di memoria perché scrivendo continui a ricordare una parte della tua vita, anche “camuffandola” nei racconti, nelle storie, ma racconti una parte della tua vita e racconti di persone che hai conosciuto: quelle cose che hai vissuto, quelle persone, continuano a vivere grazie a quelle storie. La questione della memoria è importante secondo me, e l’ho capito il giorno dopo la pubblicazione del mio libro: ti rendi conto

che se scrivi, se riesci a pubblicare un libro, anche se il giorno dopo muori quel libro rimane, ed è una cosa fantastica, più grande anche di chi scrive, perché l’oggetto rimane anche dopo anni.


sì, scrittura è soprattutto memoria.

Questo succede anche per l’arte, la musica, il cinema... Credi ci sia un legame fra queste arti?

Assolutamente. Parlo personalmente, sono stato molto influenzato dalle storie che raccontavano i cantanti o i grandi registi: è stato fondamentale per me, perché vedendo le loro opere, leggendole, ascoltandole, la fantasia viaggiava come quando mio nonno mi raccontava le fiabe.

Ricordo che alcune frasi di certe canzoni suscitavano un mondo, da una frase partiva una storia intera.


Ed essendo la tua scrittura anche memoria, quanto di autobiografico c’è nel tuo libro?

Tornando al ragionamento di prima, uno può cercare di cambiare, inventare quanto vuole, ma di autobiografico credo ci sia quasi tutto nelle storie che si scrivono, dal mio punto di vista. È una forma di memoria, di ricordi che si mescolano alla fantasia. Oppure può essere una descrizione delle tue paure, dei tuoi sogni: anche in quel caso racconti te stesso.


Ho letto che per il tuo prossimo lavoro stavi pensando a un thriller basato su una storia vera.

Ci sarà sempre qualcosa di autobiografico o vuoi provare a distaccarti dalla tua esperienza personale?

Questo è interessante, perché ci sto lavorando e mi sono reso conto che anche avendo una storia realmente esistita, quando si va a romanzarla inevitabilmente si scrive anche di sé stessi. Questa storia quindi, che è la storia di un rapinatore, racconta anche la mia storia.. Penso per esempio alle scene tra lui e i suoi amici: per descrivere i suoi amici racconto i miei amici, per descrivere i suoi amori racconto storie che ho vissuto io, quindi credo sia inevitabile.

Nel caso delle biografie è diverso, per me sarebbe difficile scrivere una biografia di qualcun altro perché non potrei inserire nulla di mio, non mi divertirebbe sinceramente.


A proposito del titolo del libro, “I grandi scrittori non mangiano”: sembra una sorta di

paradosso. Qual è il suo significato?

Il significato è legato a quegli scrittori di cui parlavo prima, come John Fante, Céline o Bukowski che hanno accompagnato la mia adolescenza ed erano i miei miti letterari. La loro caratteristica era proprio questa: scrivevano soltanto, nella loro vita, nonostante avessero difficoltà economiche legate alla scrittura, che appunto non rende se non quando sei già morto e quindi diventi famoso solo dopo. Loro continuavano a scrivere per amore verso la scrittura, e c’è una scena descritta da John Fante in “Chiedi alla polvere”, il suo romanzo più famoso, in cui lui era talmente preso dalla scrittura, e completamente povero, che si ritrova a rubare le arance al mercato per sopravvivere.

Questo mi ha colpito molto, perché descrive l’amore per la scrittura, e ho visto che quasi tutti i grandi scrittori, salvo qualche eccezione, hanno avuto questo periodo molto difficile nella vita, e che quindi non mangiavano praticamente ma continuavano a scrivere, perché era più forte di loro.


era talmente preso dalla scrittura, e completamente povero, che si ritrova a rubare le arance al mercato per sopravvivere

Nella descrizione, il tuo libro viene definito come: “L’ironia che nasce dal disagio di vivere nel posto in cui si è nati.”. Perché scegliere la parola disagio, che sembra avere quasi un’accezione negativa?

È particolare, penso, il legame che ognuno di noi ha con la sua terra d’origine. Non so se questa sia una cosa comune a tutti, ma chi nasce in un luogo, anche se lo ama, è sempre tentato dall’esplorarne di nuovi, almeno per quanto riguarda le persone curiose.

Nel mio caso era un disagio vivere nel posto in cui sono nato e non poter, fino ad una certa età, esplorare il mondo, nascosto anche dietro alle storie che leggevo o vedevo. Volevo assolutamente conoscere di persona questi ambienti, e lì nasceva il disagio, perché bisognava crearsi un micro mondo nel tuo mondo che prevedeva la

visione di film, quindi per esempio conoscevi l’America attraverso i film, oppure attraverso le canzoni, i libri... Era questo il disagio che provavo, che poi in realtà si trasforma in un ampliamento della curiosità che ti spinge a cercare altri luoghi.

Per esempio Venezia: sono qui sulle orme di Hugo Pratt.

Questi grandi miti, e la curiosità, ti spingono ad andare “in pellegrinaggio” nei loro luoghi.


chi nasce in un luogo, anche se lo ama, è sempre tentato dall’esplorarne di nuovi

Venezia ti sta piacendo come ti aspettavi?

Moltissimo. C’ero già stato, ma non l’ho mai esplorata così approfonditamente, e ne sono rimasto ancora più affascinato di prima. Credo sia fantastica, unica al mondo.


Il viaggio quindi è una componente importante nella tua vita. Viaggiare ti serve anche a scrivere, e viceversa?

In una scena di Corto Maltese, al protagonista veniva chiesto che cosa cercasse a Venezia, e lui rispondeva “Una storia”. Questo secondo me racchiude bene il senso del viaggio.

Maltese viaggiava per cercare delle storie, cercava l’avventura, e secondo lui la vita vera era questa: esplorare nuovi luoghi per avere nuova vita, qualcosa di diverso da quella di tutti giorni, qualcosa di casuale, caotico. Arrivi in un nuovo luogo e si crea il caos, perché non lo conosci, e quindi ti affidi alla casualità.


Il posto che più ti è piaciuto fra quelli che hai visitato?

In Venezia, la zona dell’Arsenale è fantastica, mi ha colpito molto. Tra l’altro mi hanno detto che fino a poco tempo fa era considerata una zona malfamata, ci sono varie storie, quindi questo l’ha resa ancora più affascinante.

Il luogo che mi è piaciuto di più in assoluto fra quelli che ho visitato è il Giappone, che è interessante perché è una cultura molto diversa dalla nostra. Anche in quel caso

ci sono stato seguendo le storie che raccontavano scrittori come Mishima o Murakami, oppure quelle che conosciamo tutti, legate ai cartoni animati.


Un posto dove invece non sei ancora stato e vorresti assolutamente visitare?

Mi piacerebbe andare in America perché è il posto in cui sono nati quasi tutti i miei miti, e poi è il posto che ci hanno raccontato quasi tutti i registi ai quali sono più legato, come Scorsese... tutti i grandi cineasti. Un po’ già la conosciamo, fa parte della nostra cultura.


La copertina del tuo libro è stata frutto di una collaborazione con l’artista croato DanijelŽeželj. Come lo hai conosciuto e qual è il significato dell’immagine?

Danijel è uno dei più grandi illustratori al mondo, quindi per me è stato un grandissimo onore aver avuto la copertina disegnata da lui. L’ho conosciuto perché faccio parte di uno studio di architettura di Matera che si chiama “Rabatanalab”, facciamo vari progetti che partono dall’architettura e si sposano con altre forme d’arte, come i fumetti o il cinema. Qualche anno fa abbiamo organizzato una mostra a Matera e abbiamo invitato vari fumettisti, tra cui Danijel, che era quello che tra tutti spiccava.

Da allora è nata anche un’amicizia personale con lui, ed è stata l’occasione per chiedergli

se gli andasse di realizzare la copertina, e per fortuna ha accettato subito. È stato un sogno nel sogno, perché già pubblicare un libro era un sogno, avere la copertina di Danijel era il massimo per me.


L’immagine personalmente mi rimanda alla musica. Qual è il legame fra copertina e libro?

Danijel ha realizzato questa copertina secondo la sua personalissima interpretazione del libro, lo ha letto e ha deciso di realizzarla così. Io per rispetto verso l’artista sinceramente non gli ho chiesto che cosa rappresentasse, perché era talmente personale che mi sarei sentito come se stessi entrando nell’intimità della sua arte, se glielo avessi chiesto. Quindi mi piace sapere l’interpretazione che ognuno ha quando la vede, ognuno ha la sua.


Hai detto che questo libro è stata la realizzazione di un sogno: come ti sei sentito quando hai visto che era stato pubblicato ed era nelle mani di tutti?

È una sensazione stranissima che si prova solo quando si pubblica un libro, perché capisci che le storie che hai scritto, e che all’inizio erano solo tue, intime, personali, ora sono di tutti. Quasi non ti appartengono più, vivono da sole, si raccontano da sole, e tu sei solo quello che le ha messe su carta.

Magari quelle storie possono diventare addirittura più importanti per un’altra persona che per te, e questo credo capiti nella letteratura: ci sono libri che salvano persone, si dice. E un’altra cosa interessante è l’interpretazione che ognuno da, come dicevamo anche per la copertina: ognuno ci vede quello che vuole, in base alla propria storia. Anche in questo senso le storie acquisiscono una vita propria.


Qual è il tuo rapporto con i lettori da quando hai pubblicato il libro?

È un rapporto di grande curiosità: molti mi scrivono chiedendomi cose che io non avevo neanche pensato scrivendo, oppure mi dicono che ci vedono influenze di scrittori o autori che magari io neanche conosco.

Quindi con i lettori c’è questo rapporto di curiosità: mi interessa sapere cosa ci

vedono loro, perché è diverso da quello che ci vedevo io mentre scrivevo.


Sarà realizzato un adattamento cinematografico a “I grandi scrittori non mangiano”: come ti senti all’idea che le tue parole divengano immagini?

È una sensazione curiosa, perché io ho sempre distinto la letteratura dal cinema, quindi cercare di immaginare la scena in modo cinematografico è una cosa molto diversa dal romanzo. È un esperimento interessante per chi scrive, perché si impara a scrivere per immagini, e credo sia importante.


Quindi quando scrivi, non scrivi per immagini?

Magari scrivo anche per immagini, ma non è una cosa voluta. Credo sia una cosa legata alle proprie influenze personali: chi è amante del cinema magari è abituato a immaginare e descrivere una scena in modo cinematografico, ma solitamente io scrivo in modo istintivo, quindi non saprei se descriverla come una scrittura per immagini.




VIrginia Burdese

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