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L’ecocritica: una nuova frontiera fra ecologia e letteratura



Un nuovo fenomeno si è affacciato al panorama della letteratura. Non si tratta di un fenomeno puramente letterario, ma piuttosto di una spinta che mira proprio ad uscire fuori dai confini dei libri letti per puro piacere personale, dei libri che mettono al centro la vita del singolo. Si sta parlando della cosiddetta ecocritica o ecocriticism, un fenomeno nato in ambito statunitense fra gli anni ’80 e ‘90: l’intento è quello di descrivere i rapporti fra uomo e natura nelle opere letterarie, al fine di diffondere una maggiore informazione e coscienza ecologica.


L’ecocritica mira a sconvolgere paradigmi estremamente radicati nel pensiero umano: il punto di partenza è certamente la relazione uomo-natura, da sempre vista in modo distorto dall’uomo stesso. Esistono due possibilità, entrambe ingannevoli: da un lato la visione dell’uomo come superiore alla natura, quindi in cui i due elementi stanno in un rapporto di disparità e l’uomo ha il potere, dall’altro la visione di una natura idealizzata e l’idea di uomo e natura conviventi in un perfetto equilibrio spontaneo. Il primo punto di vista è erroneo perché pone l’uomo in una posizione di dominio irrispettoso verso ciò che lo circonda, il secondo lo è altrettanto perché contribuisce a deresponsabilizzare l’uomo, che, messo del tutto alla pari con la natura con cui vive in armonia, non si sente in dovere di fare nulla per salvaguardare quest’ultima. L’uomo rimane fermo, quando è l’unico a poter agire. La soluzione potrebbe essere un paradigma in cui la distanza fra io e mondo esterno diventa una risorsa, anche dal punto di vista artistico.

Bisogna inoltre abolire la tradizionale distinzione uomo-natura, poiché questa separazione netta non esiste: Donna Haraway ci ricorda come il genoma umano si trova solo nel 10% delle cellule che occupano il nostro corpo, mentre il resto è occupato da batteri, funghi, protisti e altri organismi, per cui «essere uno è sempre diventare insieme a molti». Il corpo umano stesso è una commistione e lo stesso vale per le azioni dell’uomo, che non esistono di per sé, ma solo in quanto rivolte verso l’esterno. Anche gli elementi naturali sono strettamente legati all’uomo: è poca la natura sulla faccia della terra ad essere totalmente incontaminata; sono pochissime, per esempio, le foreste vergini, mentre gran parte delle foreste sulla terra sono ibride, e spesso hanno sviluppato anche un rapporto di dipendenza non indifferente rispetto all’uomo e alla sua attività. Così, tutto è un ibrido, tutto è contaminazione. Le contaminazioni, sono sì un rischio –perché contaminazione è tutto ciò che produce un danno ambientale-, ma anche la normale forma di esistenza dell’uomo e delle cose. Di questo normale stato delle cose, che è inevitabilmente contaminazione, l’ecocritica mira a far prendere consapevolezza.

Il rapporto uomo-natura si riflette sulla relazione fra arte ed ecologia: anche questo binomio va riconsiderato. Fin quasi dalla sua nascita, l’umanità ha raffigurato la natura, in modo quasi mai oggettivo e facendo emergere diversi atteggiamenti nei suoi confronti: da un lato la venerazione, dall’altro il controllo. Le rappresentazioni artistiche hanno influenzato la percezione della natura. Fin dalla Bibbia, l’uomo è presentato come distante dalla natura –viene cacciato dal paradiso terrestre-, ma anche al centro della creazione, come elemento più importante di questa, e con potere su di essa. Nel mondo antico prevalgono le rappresentazioni idealizzate della natura, e domina l’idea di un’antica età dell’oro, in cui regnava l’armonia e la natura offriva spontaneamente i suoi frutti agli uomini. Ancora andando avanti nei secoli e arrivando al Romanticismo la rappresentazione rimane ferma su una natura incontaminata in cui solo alcuni uomini possono trovare fugaci momenti di comunione ed esaltazione. Questi momenti non sono quindi riservati a tutti, e sono precari, mentre l’obiettivo ultimo dell’ecocritica deve essere quello di diffondere una consapevolezza generalizzata, di creare una nuova mentalità per cui l’equilibrio e il rapporto positivo con la natura venga ricercato da tutti con responsabilità.


Oggi l’ecologia si afferma con forza nella letteratura perché è ormai parte integrante delle vite di tutti: sia nella vita dei singoli che entrano in diretto contatto con l’inquinamento, i cambiamenti climatici, il degrado ambientale, e vengono a conoscenza dei possibili modelli alternativi, sia nel dibattito sociale e politico, in cui tuttavia questi temi non si sono ancora imposti a sufficienza. La letteratura, e l’ecocritica ad essa collegata, possono essere un ottimo modo per portare la giusta attenzione su questi problemi. La disciplina ha avuto diversi sviluppi: in particolare è interessante la cosiddetta ecocritica della materia, una delle spinte più recenti nel movimento, che vuole partire non tanto dal letterario, ma dalla materia, intesa come densa di narratività. Far parlare la materia togliendo l’uomo significa realizzare ciò che Calvino auspicava nelle Lezioni americane (1988) quando parlava di «un’opera concepita al di fuori del self […] per far parlare ciò che non ha parole». L’intrinseca testualità della materia presuppone un altro concetto fondamentale, quello dell’agency, ovvero capacità della materia di agire come forza narrativa. Un ottimo esempio di questi principi è il documentario di Jeremy Konner, The Majestic Plastic Bag, che racconta le avventure di una busta di plastica la quale conclude il suo ciclo “naturale” nell’Oceano Pacifico. Il lavoro è ovviamente una provocazione: nessuno direbbe infatti che la destinazione naturale di un sacchetto di plastica sia l’oceano. Il documentario ci aiuta a capire il concetto di agency, che potrebbe sembrare ambiguo. Le cose inanimate hanno una capacità di agire? Dal documentario capiamo che in qualche modo la risposta è sì: la plastica ha infatti una relazione con l’uomo, la salute, gli ecosistemi, l’economia e la politica, e queste relazioni portano con sé delle storie.


Alla base dell’ecocritica c’è l’idea che alla base della crisi ecologica ci sia una crisi culturale. Quindi per questi studiosi le forme di conoscenza influiscono sulle condizioni di vita dell’uomo e sull’ambiente in cui vive; a questo punto, l’obiettivo è orientare la cultura verso meccanismi di conservazione piuttosto che di distruzione. Per risolvere questa crisi occorrono sistemi di pensiero anti convenzionali e una riorganizzazione del sapere. Bisogna abbattere la tendenza diffusa di affidare la responsabilità di ciò che sta accadendo nel mondo e delle nostre azioni e reazioni agli scienziati, agli esperti, e iniziare a parlare di responsabilità individuali. Per quanto riguarda invece l’organizzazione del sapere bisogna combattere la tendenza dominante, che va verso una compartimentazione sempre più massiccia del sapere, e andare verso una sempre maggiore trans-disciplinarietà. Cercare una circolazione più libera del sapere.

L’eccessiva frammentazione nel campo della conoscenza si riflette nei sistemi scolastici, dalla scuola primaria fino all’università. L’istruzione non dà spazio all’ecologia, e questo è un male, data la centralità del problema ecologico nella nostra vita; se è necessario che si sviluppi una coscienza ecologica la cosa migliore da fare sarebbe sfruttare la naturale predisposizione dei bambini alla biofilia, cioè all’amore per tutto ciò che è vivente; solo così il rispetto per la natura potrebbe diventare automatico e non una lenta e difficile acquisizione. Nella scuola si deve superare la separazione fra le varie discipline e in particolare la più ampia frattura fra materie scientifiche ed umanistiche. Questo avviene già in ambito universitario in cui si sono sviluppate le cosiddette Environmental Humanities, le scienze umane ambientali, che mirano proprio a mettere in contatto cultura scientifica e umanistica e a evidenziare le relazioni fra cultura e natura. Nonostante questa nuove discipline si può dire che un’educazione all’ecologia è ancora lontana dall’affermarsi nei sistemi educativi che si evolvono con lentezza e tendono alla conservatività.


La situazione potrebbe cambiare solo con l’attenzione e il sostegno della politica che però si dimostra ancora per la maggior parte sorda a queste tematiche. Se l’ecocritica riuscisse a porre al centro dell’attenzione della collettività il problema ambientale, potrebbe a sua volta arrivare alla politica e produrre un cambiamento di paradigma generale. Ma come possono l’arte e la letteratura tentare di imporre questo nuovo modello? Si tratta di uno scambio reciproco: da un lato l’ecologia si serve di procedimenti letterari per emergere con più forza, dall’altro la letteratura acquisisce nuove tematiche grazie all’ecologia. Il procedimento letterario più importante è sicuramente lo straniamento. Esso consente un ribaltamento di visuale, per esempio raffigurando la società umana dalla prospettiva di altri esseri –animali o creature di invenzione-. Permette inoltre un allontanamento, tramite lo spostamento temporale nel futuro o nel passato. In questo modo il lettore, vedendo da fuori alcune sue abitudini e comportamenti, potrà cambiare prospettiva su di essi. Potrà inoltre uscire da una visione antropocentrica per vedere anche il non-umano come una realtà dotata di significato. Un buon esempio di straniamento è quello presente in Underworld di Don DeLillo. Nel romanzo il protagonista si rende conto di percepire tutto come se fosse spazzatura, anche la merce ancora nuova sugli scaffali; si inverte così il rapporto fra ciò che è funzionale e ciò che non lo è. Inoltre, se tutto è spazzatura, anch’essa acquista un valore. Non si rimanda solo all’effettivo valore economico della spazzatura (e ai traffici della criminalità legati ad essa), ma anche a un valore simbolico per cui in questa e in altre opere la spazzatura diventa elemento del paesaggio o paesaggio essa stessa.

Fra i vari temi che l’ecologia ha fornito alla letteratura quello dei rifiuti è proprio uno di quelli dominanti: Calvino, ne Le città invisibili (1972), immagina Leonia, una città che si ricostruisce ogni giorno producendo moltissimi rifiuti, vera e propria metafora del nostro vivere consumistico. Opere di finzione prendono le mosse da situazioni reali, come la crisi dei rifiuti in Campania, che viene ripresa per esempio nel finale di Gomorra (Saviano, 2006).


Un altro tema di spicco è quello dell’apocalisse ecologica: tramite fenomeni che possono variare molto (da un virus, a un attacco alieno, a un evento astronomico..) l’ordine delle cose viene sovvertito. Dopodichè si scopre l’esistenza di schemi nascosti sotto la superficie del reale. Questa rivelazione mette a repentaglio il mondo e la visione di esso e porta inevitabilmente a una reazione a un cambiamento. La conclusione di questi romanzi non è di solito uno sterminio totale della popolazione umana, ma una almeno parziale sopravvivenza, che però comporta appunto dei cambiamenti grossi nel modo di vivere umano.


Ultimo, ma non meno importante, il tema del cibo, che viene visto quasi come l’anello di congiunzione fra uomo e natura. Ma l’equivalenza cibo=natura è ormai erronea, perchè il cibo nella nostra epoca perde la valenza semplicemente nutrizionale per acquisire significati simbolici: dietro al cibo si nascondono infatti discorsi legati alla fame, ai disturbi del comportamento alimentare, alle malattie autoimmuni. Dietro al cibo troviamo anche l’intero discorso ambientale e anche quello della criminalità e dell’ecomafia. Di nuovo, una serie di storie si intrecciano dietro qualcosa di semplicissimo: ciò che troviamo ogni giorno nei nostri piatti.


Si può dunque concludere che effettivamente l’ecocritica ha la capacità di far emergere con forza problemi di attualità e di far uscire l’uomo dalla sua prospettiva antropocentrica, di permettergli di guardarsi da fuori e prendersi le responsabilità per tanto tempo ignorate. L’uomo è un animale culturale e questo significa che tutto ciò che è arte può coinvolgerlo e arrivargli nel profondo.




Francesca Torchio


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