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Passato remoto? Età mitiche e identità turca

«Sono convinto che la consapevolezza storica giochi un ruolo speciale nel rafforzamento delle alternative non nazionaliste».

Questa frase è di Altuğ Taner Akçam, professore invitato di Storia alla University of Minnesota, il quale è stato uno dei primi accademici turchi a riconoscere ed a discutere apertamente il genocidio

armeno, prima nella sua tesi di dottorato, per poi arrivare alla pubblicazione dell’opera Nazionalismo turco e genocidio armeno. Dall’Impero ottomano alla Repubblica (2004). Uno Stato per avere un carattere nazionale, afferma lo storico turco, deve possedere tanto criteri etnico-culturali-religiosi condivisi, quanto una memoria comune. Se i primi aspetti possono classificarsi come maggiormente oggettivabili, la sfera della memoria appartiene perlopiù allo status mentale che costituisce la componente “immaginaria” o ideale, alla quale però un popolo è solito fare riferimento. L’elemento

di solidità di una nazione è rappresentato dall’univocità, senza la quale si corre il rischio della frammentazione; beninteso un criterio unitario non è per nessun motivo da intendersi come reductio ad unum, semmai diventa sinonimo del concetto di memoria comune sopracitato, ovvero trait d’union

tra le differenti etnie, religioni e culture. Uno dei problemi della Turchia odierna è proprio la

mancanza di un’identità civile; concetto sì astratto, ma che in chiave pragmatica prevede l’assenza, o perlomeno una netta riduzione, di marcature etniche, religiose o culturali. Ogni identità che si rispetti deve però basarsi su elementi tali che possano essere giudicati fondanti; per questo motivo è inevitabile un raffronto col passato. Scrive ancora Akçam: «solo gli stati nazionali che sono in pace

con il proprio passato e tutti i loro cittadini possono costruire un futuro basato su principi

democratici». La Turchia ancora oggi deve compiere questo faccia a faccia col passato e con ciò che di esso trascina nel presente. Basti pensare che le commemorazioni per il centenario del genocidio armeno, definito come il ‘primo genocidio del XX secolo’, hanno suscitato un moderato

interessamento dell’Europa; mentre dalla parte turca vi è stato, e vi è tutt’ora, il più fragoroso silenzio:

parlarne può costare il carcere. Ancora oggi sussistono problemi presenti già ad inizio XX secolo, quando la Turchia era nel mentre di un processo di modernizzazione, che si concretizzò con la formazione di un’élite burocratico-militare. Inevitabile la deriva nazionalista, che vide la massima

espressione nel movimento CUP (Comitato dell’Unione e del Progresso), i cui membri sono meglio noti con la denominazione di Giovani Turchi; non bisogna dimenticare che i membri di questo movimento erano impregnati nelle loro stesse basi filosofiche da ideologie europee, vedere la

mazziniana Giovine Italia. Il nazionalismo turco di inizio XX secolo godeva di una natura una e trina, ovvero era in sé unitario, ma al contempo era formato da tre componenti essenziali: l’ottomanismo, l’idea di turchità e l’islamismo. L’idea della ‘nazione dominante’ (Millet-i Hakime) istituiva così un

diritto “naturale” per governare un’area così eterogenea; tanto che il mito dell’antichità e della superiorità turca non fosse altro che un’ulteriore dimostrazione della componente razziale intrisa al nazionalismo.

D’altro canto osservava provocatoriamente lo storico e filosofo francese Ernest Renan:

«una nazione può nascere solo dalla distorsione del proprio passato»; infatti ogni nazione, pur con un gradiente diverso, ha la necessità di distorcere e di ridefinire continuamente il proprio passato in

relazione ad un sempre nuovo contesto di riferimento.

Ciò che la Turchia sta attualmente vivendo è una specie di copia degli eventi dell’inizio del ventesimo secolo e, come ogni replica, consta di ovvie novità e di tristi rifacimenti. Già nel 2004 Akçam aveva affermato: «non è esagerato dire che oggi, nella nazione turca, esiste il potenziale per la stessa violenta

accettazione dell’identità nazionale». Alla luce dei recenti avvenimento nella penisola anatolica e nella Siria settentrionale queste parole assumono un connotato tristemente concreto. I curdi sono l’ennesimo gruppo etnico preso di mira dallo stato turco, sono l’ennesimo caso di popolo a cui

vengono negate le basilari richieste di diritti umani e delle annesse libertà fondamentali. La Turchia conferma una sua costante caratteristica endogena: la paura delle differenze interne e l’incapacità di

gestire una situazione così variegata. La mancanza di una memoria storica comune e condivisa porta a creare conflitti interni, in quanto si creano barriere etniche che inibiscono ogni forma di

comunicazione.

A ciò si aggiunga la preoccupazione del presidente turco, se così si può chiamare un dittatore genocida quale Erdoğan, verso il Rojava, ovvero l’Amministrazione autonoma della Siria del Nord-Est costituitasi in seguito agli eventi della guerra civile siriana e della lotta contro l’ISIS, di cui, è bene ricordarlo, i curdi sono stati i principali oppositori. La paura per una possibile formazione dello stato del Kurdistan ha portato a campagne di disinformazione, arrivando a dipingere il PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan) come terrorista; basta un minimo cenno di memoria storica per scalzare queste fesserie, per esempio ricordando che la fondazione del PKK nel 1978 è conseguenza delle violenze dello stato turco sul popolo curdo. Il Rojava non costituisce un problema meramente territoriale, ma principalmente ideologico; porta avanti molte lotte “scomode” come l’uguaglianza di genere, il pluralismo religioso, la sostenibilità ambientale e delle ideologie anticapitaliste. Le attuali azioni della Turchia di Erdoğan non sono altro che forme di terrorismo di stato; terrorismo che ha ottenuto il beneplacito degli Stati Uniti, che hanno dimostrato l’ennesimo caso di opportunismo politico in Medio Oriente. Per la Siria servirebbe un nuovo piano Marshall, non si dovrebbe di certo lasciare il paese nelle mani del governo turco; la creazione di una ‘fascia di sicurezza’ non è altro che un accordo preso a tavolino tra superpotenze per la creazione di una zona cuscinetto. La scusa dei rifugiati siriani è semplicemente una carta politica che è stata usata acutamente da Erdoğan in vista delle prossime elezioni; d’altronde come si può effettuare un rimpatrio laddove le città sono distrutte e l’economia è al collasso? Con quali prospettive? Utopie, rêverie insomma. L’accordo con la Russia non è altro che la sigla di comuni interessi per l’area coinvolta; così facendo uno ottiene un consistente appoggio militare, mentre l’altro consolida la propria influenza nell’area. Partendo dal menefreghismo statunitense, passando per l’opportunismo russo, si finisce con l’agnosticismo dei valori europeo. La sensazione è quella di aver perso un’occasione importante per esprimere che gli ideali europei di pace, giustizia e sicurezza non siano soltanto parole. Serve inevitabilmente una presa di posizione solida e netta, serve maggiore interesse e più accurata informazione; se l’Europa e gli States possono concedersi il lusso di dimenticare il popolo curdo, noi comuni cittadini no. Una nuova minaccia bussa alle porte dell’Europa; la questione ci appartiene più di quanto all’apparenza ci possa sembrare. In questo preciso frangente storico si stanno decidendo questioni che rischiamo di trascinare per i prossimi decenni, se non di più, problematiche che potrebbero restare irrisolte e trascurate dall’indifferenza generale. Quanti popoli “curdi” dobbiamo ancora soggiogare prima di comprendere l’importanza di queste battaglie?

Fino a che punto queste questioni devono lederci per sentirle pienamente nostre? Cosa bisogna ancora perdere?

Kobanê is calling again e mó chi gli risponde?

Andrea Giraudo

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