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Scacco al potere: Parasite

  • Immagine del redattore: Prospettive Magazine
    Prospettive Magazine
  • 11 mar 2020
  • Tempo di lettura: 7 min

« I soldi sono come il ferro da stiro, appianano le crepe della vita e fanno sembrare tutto più facile »

Un capolavoro cinematografico da non perdere quello diretto da Bong Joon-ho, che ha ottenuto meritatamente numerosi riconoscimenti, tra i quali spicca la Palma d’oro al Festival di Cannes e la vittoria di ben quattro Premi Oscar: miglior film, miglior film internazionale, miglior regista e migliore sceneggiatura originale.


Il film è ambientato nella Corea del Sud, paese dalle numerose contraddizioni interne, magistralmente esposte attraverso la questione della lotta di classe tra due famiglie. Entrambe le famiglie apparentemente mostrano dei parallelismi, come il numero dei componenti, quattro per ciascuna, con un’equa bipartizione della componente maschile e di quella femminile; tuttavia ben presto si potranno scorgere le differenze. La famiglia dei Kim rappresenta il proletariato che, tramite il lavoro, cerca non soltanto gli strumenti indispensabili per la sopravvivenza, ma anche una forma di ascesa sociale. Geniale le tecniche messe in atto per far sì che tutti i componenti dei Kim possano entrare a lavorare sotto mentite spoglie per i Park, l’altra famiglia, però di estrazione borghese. Parasite non è una riproposizione del tòpos del servus callidus, non ha alcun lieto fine, se non quello di rimarcare le differenze nette tra le classi; differenze che vengono mostrate già a livello di ambientazione, passando dall’appartamento dello scantinato dei Kim alla mega villa con open space dei Park. La favola liberale del lavoro onesto che ripaga i suoi frutti subirà però un graduale ridimensionamento lungo tutto il film fino a giungere alla sua totale negazione. Gli slogan quali labor omnia vincit hanno poco conto in una società capitalista e ordoliberale come quella attuale, di cui Parasite è il più spietato giudice pronto a mostrare tutte le profonde incongruenze e le incolmabili lacerazioni. Perché l’illusione che in un sistema liberista si massimizza la libertà è mera retorica; la realtà è un’altra ed è quella delle masse numerose di sottoproletariato che abitano i sobborghi delle metropoli mondiali. La libertà tanto blasonata dalle rivoluzioni borghesi del XVIII secolo è vincolata alle barriere economiche, che, per banale logica di necessità, diventano anche sociali. Vi è qui una feroce critica alla trickle-down economics, secondo la quale i benefici economici nei confronti dei ceti abbienti favoriscono di conseguenza l’intera società attraverso forme di re-investimento del denaro; in particolare nel film vi è una rappresentazione metaforica della teoria del gocciolamento per mezzo di un diluvio “universale”. Diluvio antitetico a quello di biblica memoria, in quanto le conseguenze dell’evento non portano alla purificazione di un sistema corrotto, semmai portano ad un semplice ristabilimento dell’equilibrio pre-esistente. Ai poveri spetta la melma, mentre i ricchi possono concedersi il lusso di godere la bellezza della pioggia; affinché una persona possa sorridere, tante devono piangere. Questi sono i risultati del sistema capitalistico nel mondo odierno: affinché ci possa essere una concentrazione della ricchezza nelle mani di una misera percentuale, il resto della popolazione deve subire le conseguenze dell’inquinamento, delle malattie e del debito pubblico. Questo è il risultato della libertà di mercato, arrivando alla produzione di una ricchezza diseguale; secondo la logica che i poveri saranno sempre più poveri, mentre i ricchi sempre più ricchi. E qui vi è la domanda centrale del film, il titolo stesso: chi è il vero parassita? Alla domanda risponde la moglie dei Park riferendosi ai poveri disgraziati che vivono nei bassifondi, ma si tratta di un depistaggio nei confronti dello spettatore; in realtà la risposta più sottile la dà il figlio dei Kim che definisce il sistema capitalistico come un sistema patologico. Ma, un passo indietro, cosa s’intende per parassita? Restringendo al solo aspetto biologico ogni animale o vegetale il cui metabolismo dipende da un altro organismo vivente; pertanto, in una società fondata sul lavoro, lo è ogni persona che vive senza lavorare, che sfrutta le fatiche altrui: i veri parassiti sono coloro che possiedono la ricchezza. Infatti ogni deficit dei Park non richiede un loro personale sforzo per colmarlo, semplicemente si ricorre ad un membro della famiglia Kim; scena messa ben in evidenza dall’incapacità della signora Park, donna del focolare sottomessa al marito, che non è né in grado di gestire la casa né i suoi stessi figli, pertanto necessita di una governante a tempo pieno. Ma ancora più serrata la critica al marito in quanto è l’unico di cui non si sa il preciso lavoro, che resta coperto da un alone di mistero; l’unica cosa che si capisce è che specula in ambito finanziario. Forte la critica di Bong Joon-ho verso il pater familias Park, figura di uomo di successo, ricco e al contempo caratterizzato da una (apparente) contraddizione in ambito lavorativo: non produce nulla di suo, ciò che guadagna lo fa soltanto sul lavoro altrui. Ben lungi da un sistema meritocratico, la filosofia di Parasite si fa sempre più serrata e pungente: chi è ricco non è tale perché è buono, ma si è buoni perché si possiede i soldi. In un sistema non meritocratico e paradossale, in cui geniale è il rimando alla dicotomia “assumiamo soltanto giovani ma con esperienza”, l’unico strumento utilizzabile per tentare un’ascesa sociale è il mentire, il fingersi ciò che si vorrebbe ottenere, il mentire su ciò che più conta: lo status. Ma non è questa la soluzione e Parasite lo mostra chiaramente: non si può fuggire dal proprio passato e soprattutto non si può negarlo. Questo aspetto è rappresentato nel film dal tema dell’odore; non una casualità se pensiamo che i mammiferi, di cui noi umani facciamo parte, hanno un olfatto particolarmente sviluppato. Ebbene l’odore ci identifica e pertanto ci divide in classi, in culture, in generi, in etnie; pertanto ogni cambiamento d’identità risulterebbe vano in quanto smascherato dall’odore. Sarà proprio l’odore emanato dal padre dei Kim che verrà percepito prima dal pater familias dei Park e poi anche dalla moglie; sarà l’odore a porre una croce sopra sull’etichetta del sottoproletariato, per usare una terminologia marxista.

Come se ciò non bastasse Bong Joon-ho affonda il dito nella piaga e mette in gioco anche la difficile situazione nazionale della Corea del Sud attraverso un elemento inatteso che dona dinamicità al film: il passaggio segreto da una parete dello scantinato che collega la villa dei Park ad un bunker sotterraneo. Bisogna premettere che molti benestanti coreani hanno costruito dei bunker sotto le loro ville proprio per paura di una possibile minaccia nucleare; ma un ennesimo ambiente porta con sé ulteriori significati. Il bunker rappresenta la Corea del Nord, il grosso elefante nella stanza, il mostro tanto temuto, il modello alternativo, nonché il mezzo con il quale si sono giustificate tutte le feroci dittature di estrema destra subite dalla Corea del Sud per paura dello Juche; Bong Joon-ho con ciò ci vuole dire che la paura non giustifica nessuna scelta totalitarista, nessun compromesso. Nel bunker vive il marito della ex governante di casa Park, anch’esso appartenente al sottoproletariato; questo elemento crea un interessante parallelismo con la famiglia dei Kim, mettendo sullo stesso livello il piano di sotto e il piano di sopra. In fondo le due Coree sono più simili di quanto credano, le differenze risiedono nelle modalità per le quali si è giunti a questi risultati. Questa nuova figura di parassita è solita salire di notte ai piani superiori per rifornirsi del cibo necessario al proprio sostentamento; proprio in una di queste offensive incontra accidentalmente il figlio dei Park, il quale rimarrà scioccato a vita dall’accaduto tanto da contrarre una malattia psichiatrica. Quale migliore metafora per rappresentare la forza della paura costante e insistente dei coreani del Sud nei confronti del loro gemello nordico. È sempre connesso al figlio dei Park, in occasione dei festeggiamenti per il suo compleanno, che si svolge la scena cruciale del film, quella che capovolge completamente il suo andamento: la guerra tra poveri. La più grande invenzione della borghesia, che deve il suo triste primato inventivo al fascismo, è il vero grosso ostacolo alla ribellione del proletariato. Si tratta del concetto marxista di falsa coscienza di classe, ovvero laddove un membro di una classe supporta la classe superiore illudendosi di ottenere dei benefici o, nel migliore delle ipotesi, di diventare come loro. Tale ideologia è ben incarnata dal parassita che vive nel bunker con devoto servilismo e venerazione nei confronti dei Park; in quanto gli permettono di sopravvivere, senza chiedersi però con quali vincoli e in che circostanze.

In conclusione è d’obbligo citare l’interessante articolo di Saviano apparso su la Repubblica in data 12 febbraio 2020, in cui viene analizzato quanto Parasite abbia aperto una breccia nel provincialismo più inaccessibile: quello degli Stati Uniti. Proprio questi vengono tirati in ballo da Bong Joon-ho sempre nella scena cardine del compleanno del figlio dei Park attraverso l’allestimento in tema indiani d’America, a dimostrazione dell’idea stereotipata che si ha di uno degli avvenimenti storici più cruenti di sempre. In maniera ancora più tagliente mostra però il risultato delle massicce politiche statunitensi nella Corea del Sud; le quali hanno portato ad una mercificazione esponenziale e a disuguaglianze di classe spaventose. Ma la critica più pesante viene riservata alla fine della scena del compleanno, ovvero quando le morti aumentano esponenzialmente, triste allegoria della guerra e sottesa violenta critica agli Stati Uniti: “per paura del modello alternativo vi siete intromessi nella contesa tra le due Coree causando un panico generale, portando guerra, arrecando un numero elevatissimo di morti”. Ma, ce lo ricorda la storia, nessuno esce mai vincitore da nessuna guerra ed è questa idea che incarnerà nel film il padre dei Kim; questi, dopo l’episodio violento del compleanno in cui attraverso un gesto di rivolta ucciderà il capitalista (il padre dei Park), finirà per nascondersi nel bunker, vivendo (di nuovo) come un parassita. Conscio del menefreghismo e dello sfruttamento nei confronti della sua classe sociale, conscio dei limiti intrinseci al proletariato (falsa coscienza e assenza di organizzazione prima di tutto), decide di attendere l’avvento della futura rivoluzione proletaria. Quale migliore metafora della sinistra, quella vera, degradata e marginata a livello sociale, relegata a vivere metaforicamente sottoterra, mantenendosi però sempre vigile e pronta, testardamente resiliente, continuando a vivere senza perdere la speranza, senza perdere nemmeno la tenerezza.

Un film da vedere, un film da gustare, un capolavoro della contemporaneità, in una sola parola: Parasite.




Andrea Giraudo

 
 
 

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