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Siamo tutti glocali!

Ciò che mi impressiona è la parola glocalizzazione. Il termine unisce in sé due concetti apparentemente distanti e senza possibilità di contatto l’un l’altro: globale e locale.

Questo neologismo è figlio degli anni Ottanta e pare che la coniatura sia avvenuta in Giappone: “dochakuka”, la sua traduzione, poi, sarebbe merito di un sociologo britannico, Roland Robertson, che, oltre per la decifrazione della lingua nipponica, ha dei meriti per quanto riguarda la diffusione del termine; tuttavia il glocalismo vede come suo massimo teorico il filosofo e sociologo Zygmunt Bauman.

Ma che cosa è la glocalizzazione? È “l’applicazione a livello locale dei prodotti o servizi creati grazie alla globalizzazione, attraverso un processo che mette in relazione le specificità delle singole realtà territoriali con il contesto internazionale”. Ovvero? Ovvero è la descrizione perfetta della realtà in cui viviamo. Perché siamo tutti “glocal”, ma forse non sappiamo di poterci definire tali. Mangiando sushi dopo aver comprato frutta a km0 siamo glocal, così come quando beviamo la Coca Cola mangiando carne del territorio. È pane quotidiano per la vita di tutti mischiare la globalizzazione alla località ed è un fenomeno a cui difficilmente ci si può sottrarre, ma poi effettivamente, si dovrebbe? La glocalizzazione nasce, necessariamente poiché è in essa contenuta, dalla globalizzazione, con cui si intende il fenomeno di unificazione a livello globale dei mercati, il quale comportò aspetti positivi, come la progressiva riduzione degli ostacoli alla libera circolazione delle merci e dei capitali, ma anche aspetti negativi, ad esempio un’omologazione dei bisogni e dunque una scomparsa delle normali singolarità dei gusti dei consumatori.

Tuttavia, aggiungendo la particolarità del locale ai caratteri del globale sembrerebbero salvarsi tante peculiarità che rompono la monotonia dei gusti omologati. Inoltre, volendo, il glocalismo consente un’ampio punto di contatto tra culture perché permette che il locale di un dato paese si trasferisca su scala globale e l’interculturalità è sempre un elemento di apertura mentale.

Dunque, in un mondo glocalizzato aperto al confronto tra gusti e bisogni diversi ci si aspetterebbe di trovare delle persone non restie alla mescolanza diretta di persone con culture diverse, ma purtroppo non è così. Non per tutti è immediata la consapevolezza che la cultura, qualunque si intenda, è il frutto di mescolanze precedenti. Il patrimonio di conoscenze di una data società non è mai puro, ma pare che non sia un fatto immediato comprenderlo. I melting pot esistono da sempre e ci permettono di essere ciò che siamo, sono sinonimo di fertilità e permettono il progresso delle società. Impedirlo è un atto di arroganza, pretendere di poter salvaguardare un’unicità, solo apparente, vuol dire non aver compreso l’andamento naturale delle civiltà.

Possiamo vivere la vita di tutti i giorni destreggiandoci tra ciò che ci è arrivato tramite i canali della globalizzazione e ciò che sappiamo essere cresciuto nelle nostre terre, essendo, però, consapevoli di ciò che questo comporta e utilizzando tale situazione come spunto di riflessione. Analizziamo fino a che punto la glocalizzazione ha penetrato la società, chiediamoci poi quanto questo abbia migliorato il nostro mondo, le nostre abitudini. Come saremmo senza l’aiuto di altre culture? E se noi allo stesso modo potessimo migliorare il mondo di altri donando un pezzo della nostra tradizione ed aiutarne altre? La decisione spetta ad ognuno di noi, si può contribuire oppure rimanere indifferenti.


Viola Talini


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