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La Banalità del Pregiudizio

  • Immagine del redattore: Prospettive Magazine
    Prospettive Magazine
  • 20 ago 2019
  • Tempo di lettura: 4 min

Viviamo in un periodo che sempre più spesso viene associato al medioevo; la fede nella scienza è venuta meno e sempre più persone senza competenze si sentono autorizzate a spacciare un’opinione personale come una verità assoluta; il divario tra poveri e ricchi diviene sempre più accentuato e sono proprio i poveri, soprattutto se provenienti da un altro paese, a diventare i soggetti di campagne politiche populiste che sempre più spesso si colorano di termini quali “Noi” e “Loro”. Viviamo quindi in un’epoca di paradosso in cui gli stereotipi e i pregiudizi guidano le masse verso una scelta politica proprio nel momento storico in cui si hanno i mezzi per rendersi conto di quando si è vittima di uno di questi. Tuttavia, è possibile vivere senza stereotipi? Davvero ci sono persone nella nostra società che non ne vengono influenzate? La risposta è sfortunatamente negativa, anche per i membri più aperti e tolleranti della nostra società ma la motivazione è situata talmente tanto in profondità nella psiche umana da rendere impossibile un’esistenza senza pregiudizi.

Gli stereotipi possono essere visti in due maniere diverse: da un lato possono essere studiati a partire dalla loro inaccuratezza che diventa saliente nel momento in cui si esprime un giudizio sociale, dall’altro possono essere semplicemente intesi come uno strumento di categorizzazione e di organizzazione che semplifica il compito di comprensione del mondo per il nostro cervello spesso eccessivamente oberato da altre funzioni. Fondamentale è a questo punto la distinzione tra ingroup e outgroup, due termini che indicano rispettivamente un gruppo sociale di cui facciamo parte e uno di cui invece siamo spettatori esterni. Prendendo ad esempio la città di Cuneo, uno studente può affermare di fare parte dell’ingroup “classe 4C del liceo scientifico” e dell’outgroup prendendo in considerazione tutte le altre classi della scuola. Interessanti diventano ora due concetti: in primo luogo la tendenza innata alla sopravvalutazione del proprio gruppo di appartenenza rispetto agli altri che vengono, a loro volta, sottovalutati o ritenuti comunque meno influenti e funzionanti rispetto al proprio. D’altro canto, estendendo il concetto di gruppo di appartenenza, come ad esempio a tutto il Liceo Scientifico e non alle singole classi, gli studenti saranno portati a considerarsi come parte di un ingroup più vasto e a sottostimare quindi un outgroup diverso e anche più grande, ad esempio i membri di un’altra scuola. Ora, questa tendenza innata al pregiudizio verso un altro si può dire radicata nel nostro genoma e perciò imprescindibile. Un esempio su tutti a tal proposito è sicuramente la teoria del gruppo minimale idealizzata da Tajfel negli anni ’50, il quale osservò come persone associate in maniera completamente casuale ad un gruppo con cui non condividevano nulla se non, appunto, l’appartenenza al gruppo, avessero la tendenza a sovrastimare le potenzialità del proprio ingroup e a preferirlo all’altro nonostante la completa assenza di legami tra i vari membri.

Questi strumenti che il nostro cervello adotta per comprendere la realtà vengono spesso abusati da parte della politica per portare l’opinione pubblica in una direzione rispetto che ad un’altra. Assistiamo sempre più spesso ad affermazioni quali “prima gli Italiani” o stringendo ancora di più il gruppo “prima i piemontesi”, slogan che hanno la funzione di creare o rafforzare nelle persone la sensazione di appartenere ad un determinato gruppo che verrà percepito come migliore rispetto ad un altro, di solito più debole e privo della possibilità di ribellarsi a questa tendenza, che verrà quindi etichettato come “diverso” o addirittura come un problema. Eppure, stando a ciò scritto sopra, questa categorizzazione risulta imprescindibile, ormai propria del nostro sentire di uomini. Ma è davvero così?

Nel 1954, Allport formulò l’ipotesi del contatto secondo la quale lo stereotipo trova un terreno fertile per nascere e crescere solo in persone che non conoscono o che non hanno avuto la possibilità di conoscere i membri dei vari outgroups. Secondo Allport il contatto con i membri di un gruppo esterno, se svolto in maniera positiva e arricchente per entrambe le parti, può aiutare a ridurre il livello di stereotipo di un gruppo nei confronti di un altro contribuendo quindi alla riduzione del rischio di razzismo e xenofobia.

In conclusione, ciascuno di noi è portato a preferire il gruppo di appartenenza rispetto ad un altro ma chi non ha i mezzi necessari alla conoscenza di un altro gruppo risulta particolarmente predisposto a essere terreno fertile in cui gli stereotipi e i pregiudizi possono nascere e diffondersi. È quindi fondamentale creare contatto e conoscenza verso l’esterno in modo da conoscere senza giudicare, da capire le motivazioni che spingono un essere umano ad agire in una determinata maniera e, magari, affrontare così l’ondata di razzismo che nel nostro paese rischia di diventare sempre più forte.

Lo stereotipo potrà anche essere banale e comprensibile ma l’odio che lo accompagna in certe situazioni deve essere sempre e comunque condannato poiché non è tanto nella biologia e nel riduzionismo alle sue capacità naturali che si cela la natura dell’uomo quanto nel suo rapporto con l’altro, con il diverso, che diventa necessario per essere considerati uomini.

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