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  • Immagine del redattoreProspettive Magazine

Vent'anni


Ho 6 anni, papà mi ha appena seduta sul bancone della panetteria. Sto osservando i movimenti delle persone che mi circondano. Di fianco a me ecco una ragazza, poco più vent'enne, che aspetta il suo turno. Sta parlando anche lei, racconta la sua vita rispondendo alle domande della panettiera. Ha un lavoro, una casa e una macchina.

Ah, che bello penso, quanto mi affascina quella figura. Ripensandoci credo sia nata proprio in quel momento la mia ossessione nel “diventare grande”, nel crescere e raggiungere i vent’anni.

Massimo simbolo di una libertà da me immaginata e ben programmata li ho sempre visti come un punto di arrivo ma allo stesso tempo di partenza. Rappresentavano la fine della scuola superiore, della convivenza coi miei genitori. In poche parole, l'inizio di una vita fatta d’indipendenza, di serate passate in compagnia delle mie amiche, magari in un monolocale in affitto, pagato coi soldi guadagnati facendo un lavoro mai ben definito o pensato.

Ecco, scrivendo, mi accorgo che l'unica cosa che non ho mai programmato era il tipo di lavoro che avrei svolto. Non fraintendetemi, ho sempre saputo che i soldi non crescono sugli alberi, né tanto meno si trovano sotto le pietre eppure, nonostante ciò, non ho mai avuto il lavoro dei sogni, dei desideri. E questo lo si percepiva già all'epoca, quando le mie zie mi domandavano: “Cosa vuoi fare da grande?”. In quei momenti risultava divertente inventarsi sempre un lavoro diverso, nessuno dava peso alla mia risposta. Faceva parte di quelle domande da repertorio come “E il fidanzatino?”.

Sono passati una decina di anni e quelle domande continuano a presentarsi ai pranzi Natalizi e, più passa il tempo, più improvvisamente queste domande diventano questioni di estrema importanza. Ma, mentre alla seconda non mi importa rispondere negativamente, la prima è sempre accompagnata da una strana sensazione, una specie di morsa che mi chiude lo stomaco e, a differenza di quando ero bambina, la mia risposta non appare più divertente anzi, la delusione che rimane sul volto dell'interlocutore è lampante. Lui, che si aspettava una risposta ricca di speranze e di progetti, rimane insoddisfatto dalle parole “non lo so" che escono lentamente dalla mia bocca.

Vorrei poter dare colpa alla società di oggi, ad un Mondo fatto di gente che sa fare tutto. Vorrei poter dire che è colpa dell'Italia che non mi sa dare abbastanza opportunità lavorative, ma sarei incoerente. La verità è che non ho le idee chiare, che continuo ad immaginarmi iscritta, ogni giorno, in una facoltà diversa, che dico di non voler passare la mia vita seduta dietro ad un computer ma allo stesso tempo non so darmi alternative, non so trovarle.

Mi sembra di star sprecando i miei vent’anni.

Ah, quanto vorrei tornare indietro, seduta su quel bancone, vedere papà che paga la spesa e, come un rito ben preciso, veder la panettiera porgermi un grissino, afferrarlo come se fosse il premio più grande del mondo, sentir la voce di mio papà che mi dice: “Noemi, come si dice?” e rispondere semplicemente “Grazie”.


Noemi Tamagno

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